Alberto Ziveri

Roma, 1908 – 1990

Tra il 1921 e il 1929 frequenta il Liceo Artistico e la scuola serale di Arti ornamentali del San Giacomo, dove studia con Antonino Calcagnadoro. Sperimenta anche la scultura che gli serve per comprendere il senso del volume e della luce. Il mestiere lo apprende nella bottega dell’affrescatore liberty Giulio Bargellini.
A quest’epoca il suo stile appare già solido ed essenziale nell’impianto compositivo. Tra il 1928 e il 1930 soggiorna ripetutamente nei dintorni di Parma (città d’origine della famiglia paterna), dove studia Andrea Mantegna, Parmigianino e Correggio, e a Milano per compiere il servizio militare nel corpo dei Bersaglieri.
La sua ricerca si traduce tecnicamente in larghe stesure cromatiche, che irradiano luce dati interno e si giustappongono in tonalità sul rosa, verde, viola, rosso e azzurro. La materia risulta così profondamente vibrante e gli spazi appaiono fluidi e pastosi. Le figure sono stilizzate e allungate in eleganti e sensuali pose antipsicologiche e atemporali. Nel 1935 alla II Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma espone accanto ai programmatori del “tonalismo”: Giuseppe Capogrossi ed Emanuele Cavalli, mentre la critica lo segnala tra le rivelazioni dell’esposizione. Il culmine della sua stagione tonale è costituito dalla personale nel 1936 nella Galleria della Cometa, fondata a Roma da Anna Laetitia Pecci Blunt, tra i suoi collezionisti.
Nel 1938 alla XXI Biennale di Venezia avviene il suo esordio realista, che concorre ad aprire una nuova fase stilistica all’interno della scuola romana. D’ora in poi, come dichiara lo stesso artista nei suoi scritti, il realismo è la sua “morale”. Tormento, violenza e solitudine, traspaiono in immagini crudelmente quotidiane. Nascono così gli intensi Autoritratti , ritratti di soldati, mercati della carne, processioni religiose, attese senza tempo nei postriboli, amplessi vissuti come lotta, risse. La nuova libertà acquisita lo porta a una lievità e ricchezza di pennello, che con ombre verdi, alla maniera di Rembrandt o nere come quelle di Goya, scopre lo psicologismo dei volti, la nudità luminosa e sensuale delle carni. Nel 1943 vince il terzo premio per la pittura alla IV Quadriennale di Roma con uno dei suoi capolavori, Giuditta e Oloferne e inoltre è richiamato alle armi. Nel 1946 alla Galleria di Roma tiene la prima personale con la nuova produzione, della quale fanno parte opere come Danae, 1943, Autoritratto, 1943, Trombettiere (Bersagliere), 1946, Predica, 1944, Composizione (Postribolo), 1945, Piazza Navona, 1941. Vi presenta anche un nutrito gruppo d’incisioni, tecnica che va coltivando dal 1926, ma che dalla scoperta di Rembrandt si è caricata di tutt’altre potenzialità espressive. Nel 1952 l’editore Luigi De Luca gli dedica la prima monografia, con un saggio di Leonardo Sinisgalli. In piena deflagrazione tra “formalisti” e “realisti” si schiera dalla parte di quest’ultimi. Nel 1956 alla XXVIII Biennale di Venezia, Roberto Longhi lo definisce il maggiore realista italiano vivente, riconfermando questa consacrazione storica nella presentazione alla personale del 1964, che allestisce a Roma nella Galleria La Nuova Pesa. Le opere quasi tutte realizzate tra il 1957 e il 1964 presentano una nuova fase realista in cui il conflitto tra “romantico” e “classico” appare placato e risolto, come dimostra Mattutino (1960 circa).